Oltre il lusso: le Maldive in solitaria tra le storie di chi vive le isole

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Ci sono luoghi che sembrano vivere solo nelle copertine di brochure patinate, tra coppie innamorate che si tengono per mano su spiagge bianche, cocktail arancioni al tramonto con ombrellini di carta colorata e promesse di felicità eterna. Alle Maldive, per convenzione, ci vai in viaggio di nozze. O almeno ci vai in due.

Quando ho detto a qualche amico che il prossimo pin nella mia mappa alla scoperta in solitaria del mondo sarebbe stato messo sulle Maldive, qualcuno mi ha chiesto se stessi bene. Come se la bellezza fosse qualcosa che va divisa per essere vera. Come se la solitudine fosse un difetto di fabbrica da nascondere dietro un sorriso di circostanza. Come fare qualcosa da soli si riducesse semplicemente a non farla in due, quindi a non avere qualcuno con cui farla.

E ancora una volta, in barba all’opinione di chi ancora oggi storce il naso, sono partita da sola, per conoscere un luogo che per tanti è solo un paradiso di lusso, ma per altri e vita quotidiana, semplice e priva di orpelli. Ho preso quel volo. Mi sono svegliata all’alba su un atollo che non sapeva nulla di me, con l’oceano che sbatteva contro la barriera corallina come se nulla potesse fermarlo. Alle Maldive anche il silenzio ha un suono, e un senso, e la solitudine non è vuoto, ma spazio. Non ci sono solo lusso e palafitte, ma quotidianità e spiritualità, se sai dove cercarle.

Il mio viaggio per l’isola di Maalhos è stato simile a un buco nero dal fondo sconfinato; dopo due voli lunghi, scali, un volo interno e una barca, circa 20 ore e 3 fusi orari, la prima sensazione che ho provato è stata di un forte caldo. La faccia bagnata dal sudore e dalle goccioline d’acqua salata che schizzavano nella barca al trapassare le onde, e tanta stanchezza. Ma nonostante questo, ero felice. Finalmente ero arrivata sull’isola di pescatori che avevo sognato per mesi: un puntino di terra e palme da cocco perso nell’atollo di Baa, con una popolazione di 500 abitanti, divisi in poche e numerose famiglie. Qui tutti si conoscono e tutti si rispettano. Le strade sono fatte di sabbia, i bambini giocano da soli, le pozze di acqua piovana decorano i sentieri e il richiamo alla preghiera è un rituale fisso e puntuale, per cinque volte al giorno.

Sono arrivata a Maalhos durante l’inizio della stagione delle piogge. Pioggia spesso, a tratti dirompente. Proprio in quei giorni, un bruttissimo monsone si stava abbattendo sull’atollo di Baa (ovviamente, mai ‘na gioia); la pioggia che picchiettava con violenza sul tetto della guest house come un tamburo, allagava le strade, tanto da ritrovarla in grandi pozze d’acqua che arrivava ben oltre l’altezza delle caviglie; a volte si fermava all’improvviso lasciando dietro di sé un cielo di un azzurro feroce, come se non fosse mai successo niente. Un paio di volte, durante acquazzoni improvvisi, mi sono rifugiata sotto un tetto di foglie di palma, guardando l’acqua scendere a secchiate, in quell’acqua di un turchese profondo, anche senza i raggi del sole. Perché le Maldive possono essere anche così, imperfette, ed è bello anche questo.

Chi pensa che questo arcipelago sia solo resort e honeymoon package, sbaglia di grosso; non è solo post perfetti sui social dove tutto è al posto giusto, nel momento giusto. Ci sono isole sconosciute, villaggi di pescatori che ti guardano con curiosità quando scendi dal dhoni, donne che arrotolano il pesce al sole, bambini che escono da scuola con le divise tutte uguali, e camminano silenziosi all’ombra degli alberi.

Vivere la faccia local delle Maldive mi ha permesso di parlare con chi vive qui tutto l’anno, tra monsoni e maree. Ho ascoltato le storie di chi vede il turismo come benedizione e condanna, di chi costruisce bungalow su palafitte che non potrà mai permettersi.

La realtà è che le Maldive sono un regno di contrasti: bellezza e spazzatura, lusso ed estrema modestia, dettami dell’Islam che si vivono come legge, e turiste in bikini che prendono il sole; e proprio per quest’ultimo motivo molte isole di pescatori sono state chiuse al turismo per anni. I locals avevano il timore che i turisti potessero “profanare” il luogo, non rispettando la popolazione e la religione mussulmana. Per questo sono nate le bikini Beach; nelle isole locali infatti non si può girare in pantaloncini corti e prendisole trasparenti, e non si può stare in costume se non in determinate spiagge riservate ai visitatori.

L’esperienza in solitaria alle Maldive è stata un po’ strana, ma piacevole. Letteralmente una fuga su un’isola (quasi) deserta, per riprendere respiro, un tempo e uno spazio mio che mi mancavano da un po’. Nelle giornate trascorse a Maalhos, tra pioggia e uscite in barca per lo snorkeling, c’è stato un momento, nella terza sera sull’isola, che è arrivato in maniera totalmente inaspettata.

Martin, il gentile proprietario della Guest house nella quale soggiornavo, mi ha invitata a cena a casa sua e della sua famiglia; alle Maldive si vive tutti insieme: marito, moglie, genitori, figli. Le famiglie sono allargate, e si vive in tanti, in spazi piccoli, ma che sanno davvero di casa. Martin è venuto a prendermi alle 19:00 in punto con il suo scooter. Ancora oggi non capisco bene perché. L’isola ha tre strade in croce e si gira tutta in dieci minuti a piedi, anche con calma. Ma evidentemente lo scooter, qui, è una forma di galanteria.

Siamo arrivati a casa sua pochi secondi dopo. Fuori dalla porta c’era un mucchio di scarpe disordinate, ognuna infilata sopra l’altra, come se si conoscessero da tempo. Dopo aver riposto lì anche le mie, in punta di piedi, ho varcato la soglia.

Dentro la sala c’erano sua moglie, la figlia adolescente, la figlia più piccola che avrà avuto 9 anni e la nipotina, di 7 anni appena. Le due bimbe mi guardavano in silenzio, con quegli occhi attenti e incuriositi di chi studia una nuova creatura. Non sembravano spaventate, né diffidenti. Solo molto concentrate a capire chi fossi e cosa ci facessi lì. A tavola, tutto era già pronto. Un susseguirsi di ciotole colme: riso, curry, pesce, delle verdure che non mi sembrava di riconoscere, e una vaschetta di peperoncini. Nessun piatto vero e proprio, nessun giro di portate. Qui si mangia con le mani. È parte della cultura, parte del gesto quotidiano che fa casa. Ma per me, abituata a coltello, forchetta e alle posate messe dritte nei tovaglioli, è un salto nel vuoto.

Imbarazzante? Sì. Naturale? Per niente. Ma ci ho provato lo stesso.

Mi sono lavata le mani, ho preso un po’ di riso, l’ho schiaccio con le dita come ho visto fare a loro, ho raccolto un po’ di pesce, affondando nelle ciotole, come se sapessi dove andare. Mi veniva da ridere per l’impaccio, ma tenevo il sorriso dentro. Le bambine continuavano a guardarmi, come si guarda un esperimento: curiosità, zero giudizio. E mentre masticavo, mi sono accorta che forse un senso c’era. Forse con le mani si sente di più. I profumi, le consistenze, la temperatura. Tutto è buono. Forse anche più buono proprio perché così intimo, diretto, vissuto.

Dopo cena, mi sono spostata sul divano con le bambine. Abbiamo colorato insieme. Hanno provato ad insegnarmi qualche parola in dhivehi, io e io ho provato a ripetere, ma con scarsi risultati e una pronuncia molto discutibile che rompeva la conversazione tra le risate chiassose dei presenti. Quella casa era viva, rumorosa, piena. Ogni 5 minuti si cambiava gioco, fino al momento in cui è spuntato un tablet; in quel momento le bimbe mi hanno sorriso chiedendomi: “Conosci questo gioco? Bisogna indovinare il nome del brand dal logo!”. Sì, lo conoscevo, e abbiamo iniziato a giocare. Devo ammettere che per essere così piccole, erano molto ferrate, anche su marchi che non avevo mai sentito, dall’alto dei miei 32 anni. A un certo punto è spuntato un grande classico: il logo del McDonald’s. Le bambine lo hanno riconosciuto in un lampo e, ridendo, si sono girate verso di me, come per farmi una domanda di cui sembravano già avere la risposta:
“Hai mai mangiato al Mc?”
Annuisco.
“Wow… noi mai.”
e lo dicevano con quegli occhi spalancati da film, come se parlassero di una navicella spaziale o di un castello di cioccolato.

E lì, in quel momento così piccolo, ho sentito una fitta di realtà. Quanto può essere lontano, per qualcuno, qualcosa che per te è semplicemente… normale. Quanto l’ovvio non esiste. E come, a volte, basta condividere una cena, qualche parola e del tempo per accorgersene davvero.

Le Maldive che ho vissuto non erano quelle patinate dei post su Instagram, dei pontili bianchi e delle colazioni fluttuanti. Erano le Maldive dei bambini che non sono mai usciti da quel minuscolo puntino nell’oceano Indiano, e che ti raccontano del corano e dei compiti a scuola. Le Maldive dei pasti mangiati con le mani, dove non si beve alcol, delle scarpe lasciate fuori senza paura che qualcuno se le prenda, dei pomeriggi stanchi e delle persone che guardano il mare, senza tuffarvici dentro, sedute sedie fatte di reti e pezzi di legno, appese agli alberi con dei fili.

Ero partita convinta di trovare un paradiso tropicale. E il paradosso è che l’ho trovato. Solo che non era dove mi aspettavo. Era nel modo in cui una famiglia mi ha accolto come si accoglie una parente lontana. Nelle risatine di due bambine che mi guardavano mentre tentavo di afferrare il riso senza farlo cadere ovunque. Nelle chiacchiere storte con chi ha un altro idioma ma la stessa voglia di capire;

Era nella semplicità ruvida delle giornate: la pioggia che arrivava quando voleva, le barche dei pescatori che tornavano al tramonto, i gatti ovunque, i silenzi pieni di cose che non si dicono, ma si sentono. Stare su un’isola local alle Maldive è stato come togliere il filtro a una foto perfetta: tutto un po’ più scomodo, più umido, più lento. Ma anche più vero. E non è stato facile, né sempre piacevole. Perché la verità, a differenza della cartolina, a volte scompone, spiazza, lascia un po’ storti. Ma resta.

E alla fine, quello che porti via non è solo il ricordo di un mare che sembra finto. È il senso profondo di essere stati dentro qualcosa. Dentro una casa, dentro una cultura, dentro un tempo diverso. E dentro te stesso, in un modo che prima non avevi previsto.

Perché a volte viaggiare non è tanto dove vai, ma quanto ti lasci scardinare da ciò che trovi.

E vivere tutto questo da sola ti fa comprendere che forse è proprio qui, dove nessuno ti aspetta, che capisci quanto sei capace di bastarti. Anche solo per un attimo. Anche se domani potresti desiderare di nuovo qualcuno con cui dividere un tramonto. Perché alla fine, il paradiso non è il posto. Sei tu, che decidi di starci dentro. Da sola. O con chi vuoi. E questo, alla fine, è tutto ciò che serve.

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