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India nuda e cruda

Non è facile per me scrivere dell’India.

Risulta complicato anche capire da dove iniziare, o riordinare le idee e le sensazioni che sono come una macina inarrestabile che passa dal cervello al cuore; un gomitolo disordinato di emozioni, di sentimenti contrastanti, di odori, e di lacrime mai uscite, ma che dentro restano stagnanti.

Non scriverò del viaggio inteso come tappe, monumenti, attività e programma.

Scriverò, invece, di interiorità, di impressioni, di turbamenti, di empatia e della parte più intima che un viaggio in India può cacciare fuori dalle persone, anche se non lo si vuole.

Cercherò di evitare la retorica, quella romanticizzazione della povertà di quando il “primo mondo” entra prepotentemente nel centro pulsante di un paese in cui la disparità sociale è una piaga dolente, con l’occhio del colonizzatore bianco, la cui unica forma di fortuna è quella di essere nato nella parte “giusta” del mondo, e non per merito suo.

Non darò spazio a quell’occhio critico che storce il naso davanti a qualcosa che il suo cuore non conosce e la sua mente non comprende.

Voglio scrivere di getto la mia esperienza, la mia India, che si stacca dai video che si trovano online sullo street food da incubo e sulla spazzatura, o dall’idea comune dell’India come paese sporco e marcio, che sembra l’unica visione accettabile, o quella a cui ci sentiamo in diritto di credere.

Come se fosse tutto qui; come se non ci fosse nessuna altra realtà possibile.

Niente foto di bambini che giocano nel fango, con frasi tipo “sorridono anche se non hanno niente“, perché sorridono, è vero, ma sanno anche di non avere niente, conoscono la povertà, e la povertà fa schifo sempre e in ogni parte del mondo, qualsiasi lingua si parli, qualsiasi Dio si preghi, e non può essere abbellita o infiocchettata… Sorridono perché è il loro modo di lottare, e sono costretti a combattere ogni giorno, perché non hanno altra scelta.

Non importa se hanno 2 anni o 15, combattono perché non possono fare altrimenti, e anche cercare di vivere le giornate che passano tutte uguali, con il sorriso, è una forma di resilienza a una vita che non hanno scelto, in un mondo che è così cattivo da permettere che le disparità siano solo un aneddoto da raccontare al ritorno dal viaggio, mostrando foto della miseria, mentre si beve uno spritz nel bar preferito, con gli amici radical chic con la puzza sotto al naso che criticheranno la scelta di aver viaggiato in un paese come l’India, perché è più facile fingere che, semplicemente, questo spaccato di mondo non esista.

Senza fronzoli, abbellimenti e frasi fatte, per me l’India è stata un’esperienza complicata, incredibilmente dura e a tratti incomprensibile.

Continuano a ritornarmi in mente delle parole che mi sono state dette da una guida indiana durante il viaggio: 

L’India non è un paese dei monumenti, ma è un paese dei sentimenti“. 

Inizialmente non capivo bene il senso, sembrava una frase uscita dai baci perugina con poco contenuto, ma poi mi è stato tutto più chiaro; all’improvviso e senza capire come, ho colto la reale essenza di quella manciata di parole messe insieme. Non si parte per l’India per ammirarne le bellezze architettoniche, per i palazzi o per le creazioni artificiali dell’uomo, che per quanto belle, sono una misera goccia in un mare di povertà, di differenze sociali, di sporcizia e di disordine; “i monumenti” non possono controbilanciare tutto il brutto che questo paese, purtroppo, ha nella sua frenetica quotidianità. L’India va, invece, vissuta per “ciò che si prova vivendola”, e non è facile spiegarlo a parole; non è facile descrivere la spiritualità così forte che quasi si materializza. Non si riesce ad articolare con le giuste parole la fede, il totale abbandono degli indù al rispetto, alla devozione e all’amore che nutrono per le divinità. La forza, l’arroganza grottesca di tradizioni che anche se sembra di aver capito, il giorno successivo succede qualcosa che fa realizzare che, probabilmente, non hai capito niente.

L’India è un pugno nello stomaco. 

È un dolore che ti logora, ti sopraffà, ti fa un male cane, e toglie il respiro. Ma quando è passato il primo stadio di sofferenza e piano piano riprendi a respirare, puoi sentire che qualcosa dentro si è rotto, o forse non era mai stato veramente integro, e ora lo è. Non so perché, non so come è successo, ma mi sentivo male, poi stavo bene, poi male di nuovo.

Prima di partire ho letto tanto, ho fatto ricerche, visto video, cercato di prepararmi a un luogo che sognavo da anni, e che sapevo non sarebbe stato facile conoscere, perché nessun libro o parola al mondo avrebbero potuto fornirmi la preparazione giusta. E infatti è stato così.

Il viaggio si è dimostrato difficile fin dall’inizio.

Eravamo le uniche due donne europee, e, fatta eccezione per un pugno di indiane vestite all’occidentale (cosa più unica che rara), posso affermare le uniche donne sul volo. Questa situazione non è stata semplice da vivere, abbiamo avuto gli sguardi di tutti uomini addosso per l’intera durata del viaggio, che pesavano su di noi come macigni di tonnellate. Ogni volta che alzavamo gli occhi, qualcuno ci stava fissando con insistenza.

Forse la spiegazione è nel Darhsan, parola che in hindi vuol dire “visione” o “sguardo”, lo avevo letto distrattamente in qualche libro comprato prima della partenza. Il Darhsan è l’usanza di mantenere un contatto visivo durevole con la statua di un Dio, affinché la sua forza, grandezza e benedizione possano raggiungere l’anima, attraverso questo sguardo. Per gli indù guardare così intensamente vuol dire stabilire una connessione con Dio, quindi fissare qualcuno, senza girare mai lo sguardo è un modo per entrare in contatto con la persona. Ci guardavano perché era il loro strumento per capire chi eravamo? Erano solo incuriositi? Era semplicemente un tratto della loro cultura? O c’era altro?

Non so dare una risposta, ma questo è stato il primo assaggio, per me, di India; un paese cosi assurdo, nel bene e nel male, così pieno di contrasti che ancora adesso, dopo essere tornata a casa, sto cercando di capire, e di metabolizzare. 

Ciò che però avevo già, a pelle, interiorizzato è che l’India è un luogo molto complicato se sei una donna. Lo è per una donna indiana, lo è per una donna occidentale. Anche se da prospettive completamente diverse. 

Mi sono fermata spesso ad ammirare lo scintillio delle decorazioni di perline dei saari delle donne, che creavano dei piccoli giochi luce, e i colori sgargianti dei tessuti degli abiti che facevano contrasto con le pelli scure quando il sole le baciava con raggi di un caldo colore dorato, mentre erano impegnate a comprare verdure al mercato locale, o sedute con le gambe unite e poste da un lato, su uno dei mille motorini che si muovevano a zig-zag fra auto e mucche. Quei volti, segnati dal tempo e dalla durezza di una vita pesante, che davano ai loro visi più anni di quelli che avevano nella realtà. Le bellissime donne indiane dei villaggi, il cui sguardo era sempre diffidente, distaccato, e incuriosito da un’immagine di femminilità così lontana da quella che avevano sempre conosciuto e a cui avevano imparato a credere come unica possibile. Guardavo le donne, loro guardavano me, come se entrambe non avessimo mai visto ciò che i nostri occhi avevano dinnanzi. Poi un sorriso stentato, come per stipulare un tacito accordo di accettazione reciproca; piano piano capivamo che nonostante le differenze c’è possibilità di un mondo che non è solo bianco o nero, ma può essere giallo, rosa, blu o a pois; può avere bindi sulla fronte o i capelli biondi. Può vestirsi all’occidentale o camminare a piedi nudi per strada. Può avere le mani colorate dall’henné o avere lo smalto rosso fuoco alle unghie fresche di manicure. Un mondo che può contemplare tante spiritualità, tante personalità, tanti universi diversi.

Essere una donna in India è faticoso, mortificante, e forse un po’ doloroso, nel senso più ampio del termine. Questo è un paese di uomini per uomini, dove predomina la legge del maschio, e non c’è modo di appellarsi, né la reale consapevolezza di poterlo fare. Per le strade si vedono donne che camminano a sguardo basso, mai da sole, e solo di giorno. I matrimoni sono combinati nel 95% dei casi, e fatta eccezione per le città più grandi e relativamente moderne, il destino di una donna dopo le nozze è sempre già scritto, e sappiamo quale sia. Ci si sposa giovanissime e se per caso questo non accade, perché i futuri “candidati mariti” decidono di scartare la proposta di matrimonio offerta dalle famiglie, la donna non sposata diventa uno zimbello, motivo di umiliazione per la famiglia, disonore sociale e scarto della comunità. Quelle che si sposano, invece, vanno a vivere a casa della famiglia del marito, insieme ai genitori di lui, agli altri fratelli con le rispettive mogli, e alle sorelle, finché non convoleranno anch’esse a nozze, intorno ai 20 anni.

Anche essere una donna straniera in India non è cosa semplice, ma la affronti, perché sai che il tuo tempo in quel paese ha una data di scadenza, prima di tornare alla tua concezione emancipata e libera di donna che può essere imprenditrice, operaia, calciatrice, docente universitario, chirurgo, astronauta, moglie, madre, o nessuna delle precedenti, e la scelta è soltanto tua, senza coercizioni sociali (o quasi).

Ma in quel luogo sembra che tutte le tue convinzioni scompaiano, e non capisci come.

Ho realizzato che il mio modo di parlare, di muovermi, e il linguaggio del corpo che consideravo come universale, in realtà non lo era, e più di una volta ho provato un enorme disagio a passeggiare per le strade, e una sensazione di insicurezza a causa di tutti quegli sguardi che cadevano prepotenti su di me. Occhi incollati che sembrava potessero trapassarmi. Le numerose richieste dei passanti, uomini, alla nostra guida, un uomo, di scattarci una foto, come se la possibilità di una donna di rispondere per sé non fosse minimamente opzione contemplata. L’inquietudine provata quando il proprietario dell’Haveli dove abbiamo trascorso una notte ha iniziato a bussare alla porta della nostra stanza, restando lì fuori per non so dire quanto tempo, insistendo affinché aprissimo la porta per farlo entrare. I momenti complicati sono stati tanti, che portavano con loro uno sconforto enorme. Ma l’India non è stata solo questo. Come insegna l’induismo, il mondo materiale è fatto di dualità: bene e male, giorno e notte, uomo e donna, ricco e povero, sole e luna, anima e corpo. E così è l’India: centinaia dualismi, di opposti, che si incrociano e si fondono tra loro.

Nelle giornate che passavano in un batter di ciglia, tra programmi serratissimi, tante cose da fare e sveglie all’alba, ho vissuto mille vite, sono entrata in mille case con lo sguardo, ho incrociato tante persone, così diverse, così impenetrabili da farmi paura.

Ho amato l’India, e poi l’ho odiata; ho provato a capirla, l’ho amata di nuovo e dopo un minuto ho sognato di scappare, e il giorno dopo l’ho amata ancora.

Solo adesso, scrivendo dal divano di casa mia, con il ticchettio inarrestabile dei tasti del pc che vanno da soli, come se tutte le parole fossero già nelle mie mani che si muovono come un’automazione, sto capendo quanta inquietudine ho provato, mista ad ammirazione, e a paura. Tutto insieme.

L’odore pungente di sterco di vacca essiccato al sole si fondeva con quello delle spezie e del the chai fin dal primo mattino, nei vicoli in cui era anche difficile camminare, scansando rifiuti e facendo attenzione a non calpestare nulla. Il rumore dei clacson incessante, a tutte le ore del giorno e della notte, era una melodia dal ritmo indecifrabile, confuso che consumava l’udito. Il sudore un tutt’uno con le lacrime che faticavano ad uscire, acqua dentro e fuori di me. Miriadi di persone che 

sgomitavano prepotentemente per passare tra le strette strade dei villaggi, l’umidità che si vedeva sulla pelle seccata dal sole, in goccioline che rigavano il collo.

Le mucche. Le mucche ovunque. Con quella sacralità e un rispetto tangibile; l’adorazione per un animale è qualcosa di davvero difficile da capire, eppure ci mette poco a diventare, anche per noi, una cosa incredibilmente naturale.

Nel secondo giorno di viaggio, a Delhi, siamo entrati al Gurudwara Bangla Sahib, un tempio Sikh, una minoranza religiosa dell’India, il cui credo si basa sulla tolleranza e uguaglianza, nella convinzione che Dio sia presente in ogni persona, perché siamo tutti uguali, al di là della nazionalità, del sesso e dell’estrazione sociale. I sikh non tagliano i capelli, perché rappresentazione della loro relazione con Dio e non mangiano carne perché restii verso la crudeltà dell’incatenare e uccidere una forma di vita per il solo piacere materiale, fisico ed effimero; il cibo non è un lusso, ma è amore e condivisione; difatti in questo tempio c’è una mensa aperta a tutti, tutti i giorni, in cui fedeli, ricchi e poveri, pellegrini e chiunque abbia il desiderio di farlo, può ristorarsi con un pasto caldo. Dopo aver girato per il tempio, a piedi nudi tra gli interni e gli esterni, ci siamo fermati nella zona della preghiera, perché obbligatorio, per tutti i visitatori, è un momento di ritiro in questo punto, prima di lasciare il luogo sacro, per ringraziare e onorare l’ospitalità ricevuta. Mentre ero seduta lì, su quell’enorme tappeto circondata da tantissime persone, le emozioni hanno avuto il sopravvento; le lacrime hanno iniziato a creare dei solchi sulle guance, non riuscivo a spiegarmi il perché ma sentivo un’indicibile connessione, un senso di pace, di gratitudine forse mai provato prima. Le mille sfumature e forme di spiritualità dell’India sono quanto di più affascinante e incredibilmente impregnante abbia mai visto. Tutto è intriso di un’aura profonda, tra l’incenso che brucia in ogni dove, con il suo fumo che ondeggia come a ritmo di danza, e la ragione che lascia spazio alla sola e pura fede, in un limbo così sottile tra misticismo e razionalità.

Passeggiando per le strade si potevano vedere così tanti mondi, fatti di turbanti colorati, anelli al naso, e tagli di occhi diversi che sembravano parlare la mia stessa lingua, e così colmi, pieni della propria storia e di tanta sofferenza. E bambini, tantissimi bambini piccoli e sporchi, alcuni non avevano degli arti, altri ancora non avevano scelta che fare le elemosina. La guida ci aveva detto di non dare soldi a questi bambini, per non alimentare lo sfruttamento in questo tipo di pratica, eppure, quando invece di una moneta davamo loro qualcosa da mangiare, la delusione nei loro occhi era immensa, come se avessero fallito il loro compito, come se la fame non fosse più brutta di non aver ottenuto quella monetina… La tristezza, l’impotenza, la consapevolezza di non poter fare niente per evitare l’ingiustizia, in questo mondo di merda che regala tutto ad alcuni, e strappa invece via anche la dignità ad altri, mi stava sopraffacendo. 

Ogni sera, al rientro in camera, tiravo un sospiro di sollievo, come se, finalmente, chiudendo quella porta avessi chiuso con lei anche tutta la frustrazione che avevo dentro, lasciandola fuori da quel micromondo ovattato che avevo creato per sopravvivere allo sconforto.

Ogni mattina, invece, mi alzavo con la voglia di continuare a conoscere questo paese, consapevole che sarebbe stata un’altra giornata emotivamente estenuante, ma con il desiderio, che mi bruciava dentro, di scoprire ancora e di più.

Nonostante ogni giorno fosse così pieno di tutto, una nuova scoperta, come se il viaggio fosse in tanti diversi paesi dove ogni momento poteva insegnare qualcosa di inedito, ad avermi davvero scosso emotivamente e stravolto l’anima è stato raggiungere Varanasi.

Varanasi è la città sacra per eccellenza, una delle più antiche del mondo ancora abitate, con quasi 13.000 anni di storia da raccontare a tutti i pellegrini che la raggiungono giornalmente da ogni parte dell’India, e del mondo. Varanasi è un luogo dove la morte si fonde con la vita, e queste due insieme, morte e vita, camminano mano nella mano per le strade strette e sporche, salgono le scale dei Ghat dove i credenti lasciano i propri vestiti, pronti a bagnarsi nelle acque sacre del fiume Gange, dove santoni che hanno abbandonato la vita materiale per inseguire qualcosa di più sacro, sorridono al passaggio di uno straniero e con le mani giunte al petto, pronunciano con un filo di voce un Namastè.

Qui, tutte le certezze collezionate in una vita di esperienze, si sciolgono come zucchero nel the chai. 

Dopo la morte, le ceneri di un indù devono essere sparse nel fiume Gange per bloccare il ciclo delle reincarnazioni, il samsara, e far sì che l’anima raggiunga la Moksha, la liberazione, il Nirvana buddhista o il paradiso cristiano.    

La sacralità di questo luogo turba, per quanto profonda e immensa, e la ragione lascia il suo spazio a una fede che dall’esterno sembra così difficile da comprendere. Ma poi, minuto dopo minuto, ti avvolge e ti penetra, tanto da farti sentire una parte integrante di quel posto. 

La morte a Varanasi ha un’accezione diversa dal resto del mondo: durante i rituali di cremazione e i cortei funebri non c’è nessuna lacrima, non c’è tristezza, per le strade la vita prosegue in maniera normale, tra motociclette, mucche, venditori di spezie e templi seminascosti tra le abitazioni. Affacciarsi sui ghat trasporta gli occhi e il cuore in un tempo antichissimo, mentre è fortissima la contrapposizione tra le nubi di fumo nero dei corpi che ardono per ore, che fanno bruciare occhi e gola, e le centinaia di persone che serene bagnano la faccia con l’acqua sacra, presa direttamente dal fiume con le mani.

Intorno alle 5:30 del mattino, dopo aver assistito al rito del Ganga Aarti, la cerimonia che è tenuta due volte al giorno da sacerdoti della casta dei Brahmin, sulle sponde del sacro Gange, abbiamo iniziato a passeggiare sulla riva, e ci siamo trovate davanti a uno dei rituali più importanti che precedono la cremazione di un corpo nei crematori a cielo aperto. Quando muore un familiare, il figlio maschio più grande dovrà rasarsi i capelli e radersi la barba, vestirsi con un tradizionale abito bianco e sarà proprio lui a portare avanti la cerimonia di cremazione. A confondermi di più c’erano i miei sentimenti, che si muovevano come in una centrifuga di contrari; trovavo tutto così leggero, affascinante, pacifico, eppure così lontano da tutto ciò che avessi sperimentato e conosciuto fino a quel momento. Osceno ma stupefacente, sporco ma autentico, spirituale, eppure così reale.

Ho aspettato tanto prima di decidere di intraprendere questo viaggio, per anni ho atteso il cosiddetto “momento giusto”, per poi capire, solo una volta tornata, che probabilmente non sarebbe mai arrivato un momento giusto; forse non esiste proprio questo punto temporale in cui si è preparati alla sofferenza, perché mai si sarà davvero pronti a partire per un viaggio così duro, così doloroso fuori e dentro di sé, emotivamente estenuante eppure capace di riempire dei vuoti interiori che non sapevi esistessero.

L’India è stato il viaggio più difficile che ho fatto fino ad ora, e forse quello che mi ha segnata di più, lacerandomi dentro in un modo che non pensavo un semplice luogo potesse fare.

Allo stesso tempo, l’India mi ha anche insegnato, come una madre amorevole che sa quando è il momento di lasciar camminare da solo il suo bambino, a capire quanto può essere cattiva questa vita, con chi ha la sola colpa di essere venuto al mondo nel posto sbagliato.

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