Con gli occhi bassi: essere donna in Guatemala – Il machismo spiegato da dentro

Table of Contents

Premessa

Il Guatemala è un paese straordinario. Ricco, contraddittorio, ancestrale. Ma può essere anche molto pericoloso. Il narcotraffico, le armi, il traffico di esseri umani, la tratta delle donne. E sicuramente può esserlo per una donna straniera in viaggio da sola.

Per questo motivo, durante gran parte della mia permanenza in Guate, ho scelto di avere con me Jaime, una guida locale; 42 anni, guatemalteco di Antigua Guatemala, la ex capitale. Un pozzo inesauribile di conoscenza sulla cultura del paese e una compagno di viaggio con tanti racconti da condividere: pezzi di vita personale e spaccati di storia sociale, che mi hanno fornito la chiave di lettura per comprendere sfumature culturali del Guatemala più profondo.

La sua presenza non solo mi ha garantito sicurezza durante parte del viaggio, ma mi ha aperto porte che, da sola, non avrei mai potuto varcare. Mi ha portata in villaggi sperduti tra le montagne, in comunità maya dove il tempo si è fermato, in mercati dove il mio volto era il primo occidentale mai visto. Ho parlato con donne che non avevano mai parlato con una straniera. Ho visitato il tempio di un santo malvagio tra gli altopiani guatemaltechi. Ho mangiato mango a fettine con tajin, limon y pepita sulle rive di un lago circondato da vulcani. Ho assistito, silenziosamente e con rispetto, a un rito sciamanico effettuato sui gradini di una chiesa cristiana costruita su una piramide maya, a pochi metri dal mercato di Chichicastenango, il più colorato dell’America latina…Ma queste sono storie che ti racconterò un’altra volta.

Oggi ti mostro questo paese dalla prospettiva di una donna che osserva le donne; in Guatemala, dove ho visto cose senza poterle toccare davvero, ho sentito parole senza mai partecipare alla conversazione, ho provato emozioni di cui mi sono vergognata, perché non riuscivo davvero a capire, forse perché donna o forse perché una donna nata in un paese troppo lontano, per chilometri e pensiero.

Scrivo con rispetto. Non per vantarmi di esperienze esotiche, ma per mettere le mani avanti su un punto: anche se esistono forme di pensare e vivere molto distanti dal nostro modo di leggere la “normalità”, il mio raccontare non è mai un giudicare. È un condividere. Ogni cultura ha le sue ombre, ogni luogo del mondo ha le sue ingiustizie. Nessuno merita di essere ridotto a stereotipo. Nessuno di essere escluso dal racconto.

Il viaggio

“Ma che vai a fare da sola in Guatemala?”

È stata la prima domanda, e la più frequente, prima della partenza. E lo è stata un po’ per tutti: per chi non aveva mai considerato il Guatemala come un posto da visitare, e per chi non sapeva neanche puntarlo su una mappa; e rientravo anche io in queste categorie, prima di decidere di partire.

A volte detta con curiosità, a volte con ironia, con quel tono a metà tra la preoccupazione e lo scetticismo che conosciamo fin troppo bene, quella domanda mi ronzava in testa di continuo. Perché ci sono posti che evocano sogni, e altri che ci fanno pensare a pericoli. Il Guatemala, per molti, appartiene al secondo gruppo.

E in effetti, non era nemmeno nei miei piani. Non lo cercavo, è nato tutto da un errore: un voucher della compagnia aerea emesso in fretta e un volo trovato stranamente sottocosto, per una destinazione così lontana, così poco conosciuta. Ma a volte, in viaggio, trovi proprio quello che non stavi cercando. Ti compare davanti come un’eco sottile, una deviazione che non avevi considerato, un richiamo silenzioso che non sai spiegare. Così è stato per il Guatemala. Un paese che mi ha attratto come sanno fare le cose oscure, complicate, autentiche.

Sono partita da sola, come faccio spesso. Ma da sola non sono mai stata davvero; per il peso degli sguardi, delle regole non scritte, dei silenzi che parlano. Perché essere una donna in Guatemala, e ancor più una donna occidentale, sola, è un’esperienza che ti entra nelle ossa. Che ti insegna, anche quando non vuoi imparare. Che ti racconta, anche se non ti parla direttamente.


Guatemala: patriarcato strutturale e machismo quotidiano

C’è un detto in Guatemala: “La mujer en casa, el hombre en la calle.” La donna in casa, l’uomo per strada. E questo è un modo di vivere, prima ancora che un modo di pensare.

Essere una donna in Guatemala non è un’esperienza che si guarda da fuori. È qualcosa che si attraversa con il corpo, con la voce trattenuta, con lo sguardo che impari ad abbassare. Non per paura, ma per rispetto. O per evitare il disprezzo. O per non creare problemi. Che poi, è quasi sempre la stessa cosa.

Qui, il machismo non è una parola da manuale di sociologia. È la regola implicita di ogni gesto. Il machismo è silenzio, è gerarchia, è una grammatica dei ruoli che si impara da piccoli e non si mette in discussione. È un mondo dove essere donna vuol dire soprattutto non essere uomo.

E se sei una donna occidentale, da sola, quel mondo non ti riconosce. Ti guarda, a volte. Più spesso ti ignora. Ma comunque ti colloca. Come ospite, come eccezione, come qualcosa che non rientra nel quadro.

Io non ero lì per giudicare. E non lo sono nemmeno qui e ora, mentre racconto. Ma certe cose vanno dette. Perché non si può capire un Paese davvero, se non si ascolta anche il modo in cui tratta le sue donne.

Il patriarcato in Guatemala non è solo sociale: è educativo, culturale, religioso. Inizia presto, prestissimo. Nelle scuole primarie, le bambine vengono separate dai maschi. Non possono giocare insieme. Le femmine imparano le faccende domestiche: a cucinare, lavare, badare ai fratelli. I bambini giocano a calcio.

Crescendo, la gerarchia non si allenta. Al contrario, si fa grammatica: le donne danno del “lei” agli uomini, anche in famiglia. Gli uomini danno del “tu” alle donne. Tra uomini, ci si dà del “vos”. Dare del “tu” a un altro uomo è un affronto. Ma alle donne si può. Perché esiste una gerarchia del rispetto qui, ed è unidirezionale.

Se nasci donna la tua vita è già costruita, lo sai, lo sanno tutti. Le famiglie sono numerose, in media si hanno dai 6 ai 12 figli, e l’età in cui una donna, o una bambina, viene data in sposa è tra i 12 e i 14 anni, e nelle popolazioni maya si può scendere fino ad 8. Le bambine aiutano a casa, i bambini giocano, e studiano. Questa realtà è ancora molto viva nei villaggi, ma anche nei centri urbani più grandi.


L’obbligo del tradizionale: vestiti, capelli, silenzi

In molte comunità indigene, ma in realtà nella gran parte del paese ad eccezione della capitale, le donne hanno il loro dress code: le vestimentas tradizionali, composte da gonne colorate e bluse ricamate. I capelli sono sempre lunghi e raccolti in trecce perfette. Non possono essere tagliati, dalla nascita.

Le donne non possono truccarsi: sarebbe irrispettoso verso gli uomini. Né possono fumare o bere. Né parlare guardando un uomo negli occhi. Gli uomini, invece, possono vestirsi come vogliono. Jeans, magliette, occhiali da sole. Nessuna regola. Nessun codice. La libertà non è per tutti. E nemmeno la parola.

In questo contesto, mi sentivo essere un’anomalia di sistema. Destavo attenzione e curiosità negli uomini… e nelle donne. Seppur diversa, comunque non ero un uomo, quindi, degna di considerazione. Durante il viaggio, Jaime è stato il mio tramite. Non solo tra luoghi, ma tra mondi. Ovunque andassimo, le persone parlavano con lui, non con me, e si rivolgevano sempre a lui. Anche quando la domanda era per me. Anche quando la risposta l’avevo io.

Ricordo che la mattina del trekking alla laguna di Chibal, uno dei luoghi più mistici del paese, mentre stavamo per salire sulla montagna, l’uomo alla guida del pick-up si rivolge a Jaime e dice: “Dille di coprirsi, c’è vento in cima.” Jaime me lo riferisce, ripetendo la stessa frase, sempre in spagnolo. Io rispondo direttamente all’uomo con un sorriso: “Grazie, lo farò.” Silenzio. Sguardo perso nel vuoto, ma non rivolto a me. Come se le mie parole fossero rimbalzate su un vetro invisibile. Più tardi, Jaime mi ha spiegato che quell’uomo aveva pensato fossimo una coppia. E che parlare con la donna di un altro uomo è un affronto. Anche se quella donna è presente. Anche se quella donna ha una voce.

Il machismo, da dentro

La scena che mi ha fatto toccare con mano la vera potenza e il vigore tangibile del machismo in Guatemala, l’ho vissuta una mattina di metà viaggio; non era nemmeno mezzogiorno quando ho infranto, senza saperlo, un tabù secolare in una piccola cittadina del Guatemala. Ero appena atterrata all’aeroporto di Flores, reduce da un volo interno all’alba da Ciudad de Guatemala. Il mio zaino era intero, il mio spirito anche. Gli accendini, però, no: sequestrati ai controlli. Sapevo che mi sarei dovuta arrangiare, quindi quando ci siamo fermati a fare colazione in una catena locale, ho detto a Jaime che volevo fumare una sigaretta. “Compro un accendino?” ho chiesto. Lui mi ha risposto che ci saremmo fermati lungo la strada, ma che intanto avrebbe chiesto dei fiammiferi al tavolo accanto al nostro, a un gruppo di uomini seduti poco lontano. Sei uomini in totale: quattro ragazzi, un adulto, e un anziano.

I fiammiferi arrivano, esco fuori per fumare. Mi guardo intorno e mi accorgo di non essere sola: ho gli occhi increduli e cuciti addosso di un gruppetto di bambini, che stava giocando poco lontano. Faccio ciao con la mano, loro ricambiano e sorridono, ancora incuriositi. Sulla porta del ristorante c’è un disegno con una pistola sbarrata, un segnale di divieto di accesso se armati. In Guatemala tanti uomini girano con una pistola, e le cinture vengono prodotte già con un passante integrato dove inserire comodamente l’arma. Faccio un ultimo tiro e getto il mozzicone di sigaretta.

Continuo a guardare quel cartello, non mi sento in pericolo, ma mi sembra tutto così strano. Passano una manciata di minuti e rientro nel locale. Decido di riportare personalmente i fiammiferi al gruppo di uomini. Mi avvicino al tavolo, mi rivolgo all’anziano e gli avvicino la scatoletta, ringraziandolo e accennando un sorriso. Succede una cosa straniante: gli altri cinque uomini mi guardano di scatto, come sincronizzati, poi abbassano tutti lo sguardo. L’anziano mi fissa per tre lunghi secondi. Occhi freddi. Nessun sorriso. Poi si gira, mormorando qualcosa di simile a “prego”, ma con il tono di chi si sente offeso.

Torno al tavolo da Jaime. Lui mi guarda come se avessi appena bestemmiato in una cattedrale. “Hai fatto una cosa grave,” mi dice, tra il tono di rimprovero che si userebbe con un bambino dopo una marachella, e un ghigno per trattenere la risata di quando hai appena assistito a una scena divertentemente inaspettata…e fuori luogo. “Grave. Parleranno per giorni di questo. Hai parlato con lui. Gli hai restituito i fiammiferi. Una donna non può fare un gesto del genere. Non al capo famiglia!”

Era stranamente divertito da questa cosa, e io perplessa, e infastidita ma anche divertita… e sorpresa; quegli uomini avrebbero davvero parlato per giorni di una scatola di fiammiferi?

In quel momento ho capito che il Guatemala mi stava raccontato molto, ma non necessariamente a parole. O meglio, non a me. Perché nascere donna, in un paese profondamente patriarcale, non significa solo osservare una realtà diversa. Significa viverla sulla pelle. Nel silenzio degli sguardi, nei gesti trattenuti, nelle parole che non ti sono rivolte.

Essere donna, in Guatemala e nel mondo

Essere donna in Guatemala è un esercizio di presenza. Di attenzione. Di resistenza silenziosa.

È un allenamento alla lucidità.
Un modo di camminare, di vestire, di parlare. Di respirare
Come se ogni cosa che fai dovesse essere filtrata da un doppio sguardo: il tuo, e quello di chi potrebbe fraintendere, giudicare, minacciare.

Essere donna qui, e forse ovunque, è imparare a leggere gli sguardi prima ancora delle parole.
A decifrare i silenzi.
A indossare la sicurezza anche quando non ce l’hai.
A sorridere, ma non troppo.
A sparire, quando serve.
A dire “no” con lo sguardo, perché a voce a volte non basta.

Eppure, è proprio in questi luoghi che ti senti più esposta, più fragile, più osservata, che riscopri anche qualcosa di te.
Una forza antica, che non fa rumore ma tiene in piedi le cose.
Una consapevolezza più cruda, ma più vera: che il tuo corpo è il primo territorio che devi imparare a proteggere. E il primo spazio dove puoi cominciare a esistere davvero.

Non è solo una questione di geografia.
Il Guatemala ti insegna qualcosa che resta.
Che la libertà non è mai scontata.
Che ci sono donne che ogni giorno resistono, si reinventano, si proteggono tra loro.
Che in certi posti la sorellanza è un’ancora, e lo sguardo di un’altra donna che ti capisce conta più delle parole.

Forse è anche questo il senso del viaggiare da sola.
Trovarti in un posto dove nessuno ti conosce, ma in cui impari a riconoscerti meglio.
A vedere chiaramente quanto pesa essere donna.
Ma anche quanto vale.

Ti va di restare in viaggio con me?

Se hai domande, curiosità o vuoi partire insieme al prossimo viaggio di gruppo, scrivimi!


E per non perderti ispirazioni, consigli e avventure in tempo reale, seguimi su Instagram e TikTok: ci vediamo lì!

TI è piaciuto l'articolo ? CONDIVIDILO nei tuoi social preferiti o via email con i tuoi amici!

Articoli correlati

Ultime Pubblicazioni

“Viaggi che uniscono, esperienze che lasciano il segno.

Ogni viaggio di gruppo è un intreccio di storie, sorrisi e scoperte. Non solo visiteremo luoghi incredibili, ma li vivremo davvero: con lentezza, curiosità e quella meraviglia che nasce quando si condivide un’emozione con chi parla la tua stessa lingua… quella del viaggio.”